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Gente di Dublino, gente di tutti i giorni

Il mio incontro con l'autore

In quinta superiore - ho frequentato un Liceo Scientifico ad indirizzo bilingue - ho avuto modo di affrontare la Letteratura Inglese del Novecento. Il mio interesse personale mi ha portato a focalizzare la mia attenzione su un autore in particolare: James Joyce.




Sono stato presto catturato dal suo carattere anticonformista e critico nei confronti della società - in questo caso, quella irlandese, anche se mi preme precisare che non ho nulla contro gli abitanti dell'Irlanda... - e di alcune prese di posizione della chiesa cattolica, carattere che viene palesato dalle famose epifanie.

Per epifania, in Joyce, si intende
il momento in cui un'emozione 
sepolta da anni nella memoria
di un personaggio riaffiora
nella superficie della sua mente,
 concedendogli di provare
le stesse emozioni provate
nel momento della sua vita
in cui esse si manifestarono
per la prima volta.

Non solo: rimango tutt'ora affascinato da quel suo spirito sempre "giovane", dal quale è stato sospinto ad intraprendere molti viaggi attraverso l'Europa.

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Joyce e la religione

Affascinato dal rapporto degli scrittori con la religione, la lettura dei testi di Joyce ha catturato il mio interesse. Il suo carattere critico nei confronti della chiesa cattolica traspare in opere come Dubliners (1914) e A Portrait of the Artist as a Young Man (1917). Pare che da adulto James si sia riconciliato con quella fede che da giovane ripudiava. Critici letterari quali di H. Kenner e T. S. Eliot constatarono che tra le righe di Joyce giacevano la manifestazione di un autentico spirito cristiano e la presenza di un credo, resa viva da un vero e proprio atteggiamento cattolico. E' possibile intravedere nella figura di Joyce gli episcopi vagantes medievali, i quali ci hanno lasciato una salda disciplina, non un modus pensandi. La storia ci narra che al capezzale di Joyce un sacerdote cattolico si offrì spontaneamente per ufficiare un rito religioso che Nora - la moglie di Joyce - rifiutò, reputandolo quasi un oltraggio all'ormai defunto scrittore.

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Dubliners - Gente di Dublino

In questa raccolta di quindici racconti, che non sono altro che una sintesi, un sunto, delle esperienze che l'autore visse a Dublino, Joyce focalizza la sua attenzione su due temi principali: la paralisi, morale, causata dalla politica e dalla religione dell'epoca, e la fuga, conseguenza della paralisi, azione che si attua nel momento in cui i personaggi comprendono la loro condizione. Ed è proprio la fuga, tra le due tematiche sviluppate, che è sempre destinata a fallire, per la ragione per cui ognuno è invitato a reagire nella propria vita, lottando contro il torpore che un momento di stallo tende a generare.

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Paralisi e Fuga: due temi molto attuali

Quante volte nella nostra vita ci siamo trovati di fronte a momenti difficili, periodi bui, periodi in cui ci sentiamo abbandonati da tutti, persino dall'Onnipotente? Impossibile contarli, e sarebbe tuttavia uno sforzo inutile. Quante volte ci siamo abbandonati ad una fede "magica", caratterizzata da riti anancastici, quasi a voler scongiurare un pericolo imminente in modo da catturare la benevolenza di Dio nei nostri confronti? Credo che ognuno di noi abbia vissuto almeno un momento così nella propria vita, un momento di particolare tensione o dispiacere, che si traduce in una grande (e, alle volte, inaspettata) fiducia verso la divinità nella quale crediamo ma che abbiamo sempre ignorato fino a quel momento. Un antico detto recita: "Quando il mondo non mi vuole più, mi rivolgo al buon Gesù". E' su questo che Joyce ci vuole indirettamente far ragionare. In Gente di Dublino l'Autore vuole mostrare gli ormai decaduti valori morali, legati alla politica e alla religione. In particolare, ci fa ragionare su come la religione possa alle volte essere vissuta male. Tutti i personaggi ritratti in questo scritto, ossia gli abitanti di Dublino, sono deboli - spiritualmente parlando - in quanto schiavi di tutto e di tutti, della loro vita familiare e religiosa. Joyce ci invita a diventare consapevoli della nostra condizione, che si traduce nel conoscere noi stessi, con le nostre forze e i nostri limiti, concetto che sta alla base della morale. E' facile, quindi, fuggire a gambe levate da queste situazioni di sconforto, ma non è indispensabile. Indispensabile è, invece, reagire e tener testa alle situazioni spiacevoli dalle quali siamo alle volte, purtroppo, travolti. Situazioni quali il fallimento, la perdita di un caro, il non raggiungimento di un obiettivo credo siano capitate a tutti. D'altro canto, chi non ha mai sperimentato un dolore, seppur piccolo, nella propria vita? Di fronte a cotanto dispiacere, ci è naturale rimanere immobili, inermi, e non traiamo - come è ben comprensibile - da queste situazioni la forza necessaria per andare avanti proseguendo il naturale cammino della vita. Occorre sempre tenere presente che non tutte le disgrazie, tutto sommato, vengono per nuocere. Sembra quasi che questa mia affermazione sia un invito a gioire delle disgrazie... Invece NO! Non mi permetterei mai di dire una cosa del genere. La mia vuole essere una piccola, ma pesante, provocazione. Tutti siamo, a nostro modo, credenti, e le religioni ci insegnano che la (o le) divinità in cui crediamo ci hanno preparato un cammino che con le nostre forze, ma sorretti dall'entità che ci ha generati, dobbiamo percorrere nel modo più dignitoso possibile. Io, da cristiano, ritengo che le varie prove alle quali Dio ci sottopone possono essere di svariati tipi, addirittura la perdita di un caro, di un fratello, di un genitore, a causa di lunghe e strazianti malattie. In queste situazioni, com'è comprensibile, siamo portati a dire che Dio non esiste, che Dio non ci ama più, che Dio è un impostore... Anzichè rimanere paralizzati di fronte a ciò, dobbiamo sempre tenere a mente che Dio non vuole mai il nostro male, neppure della persona che ha chiamato a se. Al contrario, se ci definiamo credenti - sto parlando di cristiani - dovremmo in teoria sapere che Dio chiama a se i suoi figli per accoglierli nel Suo Regno di amore, per far gustare loro la gioia e la pace eterne. Certo, molte persone vengono accolte nel suo Regno troppo presto, secondo il nostro pensiero, ma dobbiamo sempre tenere a mente che i tempi di Dio non sono i nostri tempi. Dio ci ha creati, ci ama e ci fa vivere un pellegrinaggio terreno per un periodo da Lui prestabilito. E' naturale per noi esseri umani intessere legami amicali, innamorarsi, amare un'altra persona (non necessariamente del sesso opposto...) ed è allo stesso modo naturale il decorso della vita che termina con la morte, quella morte della quale abbiamo tanta paura - anche se credo che abbiamo più paura della sofferenza che ci porta alla morte più che della morte stessa. E' da qui che parte l'invito di Joyce a mantenere una fede salda, una fede che non conosce debolezza, una fede che non si lascia deturpare dalle nostre fragilità. Solo così, cosa affatto semplice, riusciremo a tener testa alle varie situazioni negative della vita, senza rimanere paralizzati per poi ricorrere all'artificio della fuga.

Commenti

  1. Leggendo questa riflessione, condivido quanto le tematiche affrontate da Joyce siano estremamente attuali e riscontrabili nella vita di ciascuno di noi. Anche io ho avuto modo di conoscere l'autore leggendo alcuni passi tratti dal libro "Dubliners" nel corso delle lezioni di letteratura inglese al mio ultimo anno di liceo.
    Sono stata colpita ugualmente dal tema della paralisi, ovvero quella sensazione di immobilità e senso di incapacità nell'affrontare alcune circostanze della vita, provato da ciascun personaggio all'interno del libro. Ricordo che mi aveva colpito profondamente questo tema in quanto sentivo di aver provato questa sensazione in certi periodi della mia vita, sentendomi coinvolta e vicina ai personaggi.
    Credo che ognuno di noi provi questo senso di immedesimazione durante la lettura, perchè si tratta di uno stato d'animo che l'essere umano incontra prima o poi nel corso della sua esistenza.
    Come affermato all'interno di questa riflessione appena letta, Joyce mostra come l'uomo sia portato ad agire di istinto, ovvero tramite la fuga e ci mostra come questa mossa non sia la strada risolutiva dei problemi che ci affliggono. Secondo me, questo ci porta a riflettere, rendendoci consapevoli che fuggendo dal problema ci sentiamo più lontani da esso ma non lo superiamo, perchè non lo affrontiamo.
    Penso che in questo modo Joyce voglia aiutarci a capire quanto siamo responsabili della nostra serenità, quanto sia importante agire e affrontare le circostanze che disturbano il raggiungimento dei nostri obiettivi o quanto è importare attraversare le situazioni che ci recano delusione e sofferenza, in modo tale da responsabilizzare noi stessi riguardo al nostro equilibrio interiore. Secondo il mio umile parere Dio probabilmente ci mette alla prova tramite diversi fatti che si presentano nella nostra vita, siano essi nuove conoscenze/esperienze di soddisfazione e felicità o situazioni di delusione e dolore. Sta poi a noi affrontarle nel modo che riteniamo migliore per la nostra serenità e quella altrui, in modo da cercare sempre il nostro equilibrio interiore e una continua evoluzione della nostra umanità, responsabili del nostro benessere e della qualità del rapporto tra noi e il mondo in cui viviamo.

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    1. Assolutamente, concordo in pieno. E' piuttosto semplice - e scontato, per altro - fuggire di fronte ai momenti di difficoltà. L'invito a reagire non lo troviamo solo in Joyce, ma anche in altri autori de quali parlerò nei prossimi articoli. Grazie del commento profondo e mirato. A presto! ;)

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  2. Bravo cuggiiiii ❤ ottimo lavoro continua così!!!😊

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    1. Grazie, Carissima! :) Spero di leggerti ancora tra i commenti ai miei articoli ;)

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